S.P.Q.R.: vestire (per finta) gli abiti della “cosa pubblica”

Perché non votiamo più? Tra disillusione politica, astensionismo crescente e retorica svuotata, un editoriale ironico su democrazia e disaffezione.

Vorrei poter essere Google per un solo momento, così da poter sapere quante volte vengono digitate le domande “Per cosa si vota l’8 e il 9 giugno?”, o “Che significa referendum abrogativo” e amenità del genere (l’ho fatto anch’io, s’intende).

Sarei ancora più felice di poter comparare questo dato con l’effettiva percentuale di persone che, nelle ultime tornate elettorali di vario genere, hanno effettivamente votato in Italia. 

I grafici reperibili online sono numerosissimi e i loro dati raccontano, inequivocabilmente, del drammatico calo del numero di votanti, anno per anno, per europee, politiche, regionali e comunali.

Come di consueto, caro lettore, questo editoriale non pretende di essere un luogo di dati esatti ed accuratissime indagini, quanto più uno spazio franco di confronto e di discussione astratta e svolazzante, bastevole anche per un commentatore approssimativo come me (che, di fatto, non ha i mezzi intellettuali per svolgere quelle analisi di cui sopra).

Vorrei intrattenermi con te, provando ad interrogarmi sui motivi di questa situazione appena delineata. 

Le mie idee ce le ho, poche e confuse, e te le esporrò per come so farlo. 

Penso che, innanzitutto, la nostra politica sia stata spolpata e ridotta ai minimi termini. Il nostro esordio come Repubblica è stato eccellente, non c’è che dire, tra alti ideali antifascisti e intellettuali proposti come capi di stato (tra tutti, spiccò la candidatura di Benedetto Croce!).

Immersi – percorsi, a volte passivamente – nel flusso furibondo della grande politica internazionale, abbiamo avuto nelle nostre aule di governo partiti che si sono distinti in Europa per la propria dinamicità e capacità di rappresentanza

Abbiamo avuto il benessere economico, i finanziamenti statunitensi e il “miracolo italiano”, gli anni del “boom”.

Abbiamo avuto gli oscuri e drammatici “anni di piombo”, le stragi, l’estremizzazione della politica e, proprio laddove i contenuti politici diventavano talmente complessi e fini a sé stessi da trasformarsi in violenza gratuita, lo svuotamento di senso dei programmi partitici agli occhi dei cittadini.

Abbiamo avuto gli anni del berlusconismo, in cui il dialogo politico si è polarizzato in grandi categorie estreme, sempre meno attente al contenuto settoriale, ed in cui la politica si è aperta alla comunicazione di massa in televisione, adeguando – e, in buona parte, mortificando – il proprio linguaggio e il tipo di contenuti da trasmettere. 

Cosa ci è rimasto al giorno d’oggi di questo percorso lungo e complesso, di cui io ho azzardato giusto qualche insufficiente pennellata (che, ne sono certo, lascerà scontenti molti di voi, anche se ho cercato di non basarmi su convinzioni politiche personali)?

Interroghiamoci su quali siano le lingue della politica al giorno d’oggi. 

Se il proprio orientamento politico verte a sinistra, allora si è comunisti. 

Se a destra, ci si becca inevitabilmente del fascista

Da ambo le parti, si vestono volentieri gli abiti di queste categorie (o meglio dire se ne indossano le vesti caricaturali, permettendo l’assurda incarnazione di uno stereotipo nato dalla cialtroneria intellettuale politica e rendendo dunque reale quel gioco di insulti altrimenti astratto e vano).

Le vie di mezzo sembrano essere sparite, schiacciate dalla presenza ingombrante di quelli che un tempo erano gli ultimi approdi di vettori ideologici ricchi di tappe intermedie

Nessuno di noi è effettivamente (o almeno lo sono ben pochi, credo) nelle condizioni di definirsi realmente fascista o comunista, eppure sono i termini con i quali il nostro dibattito politico – e non solo quello tra cittadini, s’intende: si parla anche del dialogo tra i nostri stessi rappresentanti – si esprime. Il cittadino? Il cittadino ha perso fiducia verso la grande politica, verso i professionisti del settore. Truffaldini, corrotti, inaffidabili, volpi che arringano le folle con passione e poi dimenticano con disprezzo una volta eletti, i politici vengono scalzati a favore dell’uomo comune, della persona venuta dal basso che magari non possiede alcuna competenza specifica – e che vada pure a farsi benedire che la persona in questione non ne capisca nulla di quel che va a fare -, ma almeno è come me, ha vissuto il lavoro e la vita quotidiana come me, quindi mi ispira quella fiducia fraterna che il politico incravattato ha ormai sacrificato per suo tornaconto.

Ciò che ci è rimasto dunque è la frattura, profonda e difficile da sanare, tra l’uomo comune e colui che lo rappresenta; il desiderio dell’elevare l’uomo medio, vicino dunque onesto (anche se impreparato); una politica impoverita, impegnata solo all’ottenimento di voti e consensi mediatici, ma che non offre contenuti politici partitici degni di nota che, qualora venissero diffusi, incontrerebbero un pubblico di elettori che, in buona parte, faticherebbe a decodificare.

Dunque, inevitabilmente, la percentuale di votanti cala, l’indice di gradimento per partiti populisti, che di quella comunicazione efficacemente “mediocre” ma vuota fanno largo uso, cresce esponenzialmente e a Predappio si radunano sempre crescenti folle di fedeli che “salutano i defunti” alzando il braccio destro – devo ricordarmi, la prossima volta che andrò ad omaggiare i miei nonni al cimitero, di salutarli anch’io in questo modo; non conoscevo questa ginnica modalità di compianto! -.

Permettimi un salto nel passato, caro lettore, e di far contento un professore col pallino dell’antichità che, altrimenti, andrebbe in crisi d’astinenza.

Durante la sua fase repubblicana, Roma incideva in epigrafe l’acronimo S.P.Q.R. che, pur con le varie interpretazioni, si può oggi comunemente riassumere nell’unitarietà del senato e del popolo Romano, cuori pulsanti di questo straordinario meccanismo politico.

Gli aristocratici romani non sono stati molto gentili verso il ceto dei lavoratori – che pure dovettero accettare in politica -, guardandoli dall’alto in basso e reputando che, poveracci, se erano ridotti a dover lavorare per mantenersi, chissà che pezzenti dovevano essere. 

Il vero romano era benestante e più, al punto tale da essere libero dal vincolo lavorativo per potersi dedicare all’unica attività capace di nobilitare l’uomo e renderlo, al massimo grado, cittadino: la politica. 

Per un cives far politica non era un doveroso obbligo o una succosa possibilità di lucro (per quest’ultima però apriamo ampie riserve) ma uno scopo di vita, un punto d’orgoglio: che romano sono, se non mi metto in gioco nel foro, se non arricchisco la mia gens con la mia partecipazione alla politica? 

Vi era la precisa coscienza del significato di res publica, la cosa pubblica, che riguardava tutti e che tutti avevano il dovere/diritto di custodire e orientare; fare politica era il modo più nobile, più alto di provvedere, in maniera condivisa, ai bisogni della propria civiltà.

Benché sia un quadro più teorico che pratico e benché la realtà sia stata decisamente meno coerente in questa gara alla virtù, possiamo dire che la Roma Repubblicana ci lascia un monito: uno stato, una democrazia, non camminano da soli; necessitano delle sue componenti, desiderose di animarli e di vigilarne il rispetto.
Oggi non amministriamo più una città con 600 senatori, ma un insieme di istituzioni ben più complesso da portare avanti. Forse non ci sarà possibile approvare le leggi con l’acclamazione o partecipare attivamente alla vita politica, godendo dell’assenza da lavoro per farlo a tempo pieno; ci è però garantito lo strumento migliore, più versatile, più temibile, per essere comunque dei cittadini e dei generatori attivi di politica: il voto.
Se amiamo così tanto invocare l’eredità romana che grava sulle nostre spalle, non perdiamo tempo e facciamola valere così. 

F.C.

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