Non c’è ambito più esplorato e abusato dal parere, sovente indiscreto, dell’opinione pubblica, quanto quello della scuola italiana e delle sue dinamiche interne. Probabilmente perché tutti, bene o male, l’abbiamo frequentata, la scuola appare come un ambito familiare e conosciuto, sulla cui ratio si può e si deve parlare con la stessa confidenza con cui si tratta delle proprie questioni personali.
Per carità, conosciamo la scuola senz’altro meglio di quanto un profano un reparto di terapia intensiva, e pur tuttavia questo piccolo mondo antico (semicit.) conserva ancora i suoi segreti e i suoi riti d’iniziazione esoterici. Nella somma difficoltà di parlare dunque dell’istituzione scolastica italiana cercando di preservare un parere professionale ed “interno” e non da chiacchiere da bar (piuttosto ipocrita come intento, dato che questa rubrica si presenta come sunto di squilli da bar attorcigliati in volute retoriche), vorrei porre l’attenzione del mio lettore su una questione oramai di primaria importanza e di altissimo dibattito, ovverosia l’introduzione dell’aggiornamento tecnologico nelle nostre aule.
Immagina, caro lettore, quanto possa essere appagante poter fruire di un moderno sistema di interazione digitale, una LIM fiammante e performante, che ci permette (quando la connessione internet arriva) di presentare video, di avviare realtà interattive, di fare attività di gruppo con esposizioni – in diretta – dei lavori appena ultimati, mentre si tenta di evitare i cavi elettrici che pendono dai soffitti sfondati, si chiude ripetutamente la porta dell’aula dalla serratura scardinata o si chiede allo studente alto di litigare con la veneziana pendente da un lato che, permettendo alla luce di filtrare, impedisce alla fila di destra di vedere lo schermo a causa del riflesso!
Ma lascerò da parte l’ironia e cercherò di condurre il mio discorso su un filo semiserio e condivisibile.
Non rimproverarmi, caro mio lettore, di essere bigotto (o come ebbe a dire un utente su Threads, col quale scambiai amabili strali di dissenso tempo addietro, di utilizzare metodi da 1800 – e il 1800 ha prodotto Alessandro Manzoni, peraltro), perché sarà mia cura il non polarizzare in categorie manichee un discorso in realtà complesso e molto più ampio di quanto questo stralcio di ciarla da bancone possa pretendere di interpretare.
Vero, la tecnologia è una risorsa che può facilitare l’apprendimento, può aggiungere una componente ludica, giocosa, importante; può aiutare gli studenti con le mille diagnosi di disturbi specifici d’apprendimento a seguire con meno sforzo i voli pindarici dei docenti; semplicemente esiste, e dunque perché no, perché escluderla aprioristicamente dalle nostre decadenti aule (non sarete certo caduti nel tranello di credere che le classi siano tutte come quelle mostrate nei servizi del telegiornale, vero?).
Vorrei invero parlare d’altro, partire da un presupposto che prende abbrivio da un diverso spunto.
Sere fa, ascoltavo con interesse le parole di Umberto Galimberti, invitato nella trasmissione di Augias “La torre di Babele” su La7. Tra i varii e più o meno condivisibili pareri elargiti, si discuteva a proposito della tecnologia e dell’evoluzione che dovrebbe garantire nelle nostre vite. Il suo discorso è stato semplice ed ovvio, eppure non aveva mai avuto la mia attenzione in questo modo: la tecnologia ha, come unico scopo evolutivo, quello di “evolvere sé stessa”. La tecnologia deve solo diventare più efficiente, più “tecnologica”, perseguendo un processo autopoietico che ha come attore principale e come obiettivo solo ed esclusivamente sé stessa. D’altronde, penso che Matrix l’abbiamo visto più o meno tutti.
In virtù di ciò, ci si chiedeva in che modo la tecnologia potesse assicurare il progresso dell’essere umano, come se fosse una creatura in grado di sobbarcarsi parte del nostro percorso di crescita intellettiva.
La macchina, in realtà, è giusto uno strumento, un mezzo che può facilitare dei processi che devono nascere, svilupparsi e trovare compimento nella mente dell’uomo, l’unica in grado di discernere realmente, di avere capacità di giudizio, capace di simbolizzare, di sovrapporre, di sviluppare empatia. E’ la differenza che intercorre tra un guanto meccanico multiuso, in cui ogni dito permette di attivare decine di funzioni automatiche, e la mano che lo anima da sotto; credere che il guanto elettronico possa prescindere dalla componente umana che lo anima, significa accettare la progressiva decadenza dell’impulso umano come motore primario di ogni cosa.
E la scuola? Cos’ha a che fare con questa allegoria un po’ ingenua, un po’ grossolana, degna di un action movie statunitense?
Laddove un insegnante dimostri di affidarsi in buona parte alla vecchia, lenta lezione frontale, si può esser certi che questi verrà considerato un relitto di un tempo che fu, che farebbe bene ad adattarsi al mondo (o piuttosto a scomparire). Il futuro dell’insegnamento si situa nella novità, nell’impulso elettronico, nella “transizione digitale”, come viene chiamata; la tecnologia viene reputata la nuova Terra di Canaan, dalle cui pietre sgorgano le panacee ai problemi di scrittura dei nostri ragazzi, i cui alberi mostrano panciuti i frutti del motivo per cui comprendere un romanzo sia oggi operazione più complessa che noiosa.
Perché, è bene ricordarlo, caro lettore, le nuove generazioni non sono a proprio agio con la scrittura: se scrivono, lo fanno male, giusto per comunicare e senza peraltro indulgere sui vezzi dello stile, quelli che permettono ad un testo di diventare elegante, o aggressivo o insinuante, o tagliente con garbo, o volgare e sboccato. Non sanno farlo, ma soprattutto (ed è quel che è più angosciante) non reputano utile farlo: basta il fatto, l’obiettivo finale, come che lo si raggiunga.
Trovano aspro un testo di Calvino (testo che, ai miei tempi, lessi a dodici anni insieme ai suoi due romanzi congiunti e ne rimasi estasiato) e dichiarano di non averci capito nulla, né di aver colto al suo interno significati su cui poter commentare qualcosa. E non parlo dei soliti casi, sempre esistiti nella media umana, e che non danno assoluta misura di un fenomeno (e qui posso dirti che sono testimone diretto).
Quello a cui assistiamo è un litigio generazionale con tutto quello che pertiene alla libera capacità d’analisi, al piacere dello sforzo speculativo della mente che porta l’uomo a vedere realtà supposte rispetto a quelle esperibili con i sensi. I nostri giovani stanno, pian piano, facendo a meno delle prerogative proprie dell’essere umano.
Se d’altronde credi che tutto ciò riguardi solo il piccolo recinto della scuola, permettimi di redarguirti, caro lettore. Guarda il nuovo linguaggio della politica: aggressivo, esplicito, rozzo, spesso compiaciuto della volgarità; l’eleganza e lo sfoggio di cultura sono piuttosto percepiti come arti sottili dell’inganno, strumenti striscianti per raggirare le persone con meno difese intellettuali. Guarda che salto! C’era un tempo in cui ci si rifiutava categoricamente di dar parola pubblica a chi non fosse in grado di ben parlare (ed era un altro eccesso quello, altrettanto atroce).
Oggi viene celebrato l’uomo comune, nell’accezione di approssimativo, “venuto dal basso” e che se ne infischia, tutto sommato, dei sofismi della preparazione specifica nell’ambito in cui ci si sta eventualmente cimentando.
La parola bella, la cultura sono divenute spie in base alle quali attuare manovre di diffidenza.
Tutto ciò dunque è davvero colpa dei nostri metodi antiquati? Degli insegnanti che, entrati in classe, iniziano a declamare per insopportabili ore dei monologhi (in realtà potenziali dibattiti) che annichiliscono le capacità d’attenzione dei giovani? O sarebbe piuttosto utile interrogarsi sul perché non si è più in grado di rapportarsi con un discorso durevole, o di elaborare un pensiero complesso e si preferisca piuttosto reputare tanto più dignitoso un discorso elementare ma efficace? E’ davvero come dicono i giornali, che ormai il nostro mondo è “tecnologico” e questo linguaggio verboso non è più adeguato e andrebbe sorpassato? Il “tempo della parola” è ormai finito, lasciato indietro? E ci troveremmo dunque nel tempo di cosa?
Penso che, caro mio lettore, dovremmo far sì che proprio la scuola rimanga un baluardo in cui ancora l’antico rituale della parola venga celebrato e difeso, per permettere ai ragazzi di trovare un momento, uno degli ultimi in questo mondo, in cui gli sia ancora permesso di prendersi lo spazio giusto per lasciare che la mente espleti i suoi processi secondo i suoi tempi.
Perché è di questo che fondamentalmente si parla: di tempo. La tecnologia è veloce, efficiente, precisa; la mente umana no. Ed è questo un suo sacrosanto diritto, quello di essere imprecisa, di andare a tentativi e conoscere le esperienze del dubbio, dell’errore (formativo). Nel nostro mondo, veloce, irrefrenabile, capitalistico (posso dirlo? Ti indigni?) lo spazio per il pensiero forse è stato talmente contratto, bistrattato dal fatto che non produce istantaneamente un guadagno, da esser stato colpevolmente scambiato per un ospite inutile.
Dunque, torniamo ad una scuola da 1800, come ti ho raccontato che mi sia stato suggerito? No, certo. Sono anch’io affascinato dalla tecnologia; fosse per me, insegnerei storia tramite un videogame interattivo (lo so, lo so, i Simpson l’hanno già detto); tuttavia la tecnologia deve sempre rimanere un’ancella del ragionamento umano, un facilitatore di processi che nascono dalla mente e nella mente trovano la loro ragion d’essere.
Il seme del futuro, come che sia, si trova e sempre si troverà nella parola, nell’intelletto dell’uomo, nell’interazione.
Se oggi i ragazzi non seguono più la lezione frontale non prendiamocela con chi ancora si ostina a proporla; cerchiamo piuttosto di capire come mai l’uomo non è più contento di parlare con un altro uomo. Socrate, da lontano, ci sorriderà. F.C.

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