Il titolo di questo pensiero, “L’opulenza dello zucchero”, è emerso da solo, è arrivato, atteso, come si attendeva una carrozza davanti ad un palazzo nobiliare.
Continuavo a ripeterlo tra me e me perché ne amo il suono rotondo, pannoso e intimo che ci riporta alle curve delle trazzere, allo sfarzo e sbrilluccichio delle tavole, alla presenza decisa e indiscussa, come la “z” di zucchero.
Immagini che spalancano lente le porte ad uno scenario preciso ricco, abbondante, fastoso, pieno di colori, pizzi, argenti, drappi e velluti.
Uno scenario che ti fa sentire senza spazio, né tempo e che racchiude l’unione ancestrale tra la Sicilia e i dolciumi, tanto rappresentati e raccontati anche dalle innumerevoli e soavi penne di conterranei letterati. Lo zucchero e la sua opulenza sono il cuore morbido della Sicilia davanti al quale servi e cavalieri si sono inchinati: omaggio a una fitta trama di culture ammiscate. Costellazioni di prelibatezze sbocciate in terre lontane e che hanno trovato terra fertile in quell’isola triangolare, abbracciata dal mare.
Ogni dolce siciliano è uno scrigno di segreti, di incanti che si svelano al morso; un morso che ruba, che accende, che fa vibrare l’anima.
Un morso che sprigiona l’essenza di una dolcissima e violentissima terra.
Sarà per tutte queste immense suggestioni che i dolciumi si sono sempre presi uno spazio nella letteratura: un segno, anzi un solco deciso di presenza e di territoriale patriottismo.
Un inequivocabile sfoggio di ricchezza, di magnanimità, di “chisti semu”.
L’opulenza dello zucchero, delle tavole imbandite del Principe di Salina, della Cassata della cucina dei Benedettini raccontata da Federico de Roberto, del cannolo di Montalbano è l’opulenza del siciliano: ricco in animo e vigore, in corpo e sensi.
Un canto ammaliante, morbido e sensuale. Un modo elegante e tipicamente nostrano di sentirci gli unici, i figli di questa terra, la Sicilia, culla, maestra e madre.
M.L.
